Concept
Di Elena Ketra e Eolo Perfido. A cura di Uros Gorgone
L’istinto animale del DNA che deve evolvere. Il desiderio emotivo della maternità, che arriva naturale. Il dolore di scoprire che nulla è scontato, e viverlo è come opporsi alla gravità. Uteri in affitto, uteri controllati e uteri come condanna. Leggi per la maternità surrogata, diritto all’aborto e negazione dello stesso, incentivi alle famiglie classiche e nuove famiglie senza figli. Sta dentro questo turbinio emotivo (e politico) l’ultimo lavoro di Elena Ketra.
Dopo l’occhio vigile del suo Utereyes, opera esposta recentemente al Museo Madre di Napoli, l’artista torna a riflettere sul mondo femminile con un nuovo progetto, nato dalla collaborazione con Eolo Perfido, noto fotografo ed artista di caratura internazionale.
Il progetto indaga sul rapporto tra la donna e la maternità che spesso smette di essere una scelta e diventa obbligo istituzionale e sociale. Nella serie di fotografie e video che rappresentano visivamente il concept della mostra, Elena indossa forzatamente una pancia in silicone (di solito utilizzata dalle attrici per simulare la maternità) diventando metafora di tutte le lotte che le donne devono compiere per ottenere la libera gestione del loro corpo.
Premamai, è questo il titolo del progetto che parla del femminile materno, evidenziandone al contempo bellezza e ansia, angoscia e tensione. Lo spettro emozionale del progetto di Elena Ketra e Eolo Perfido infatti è vasto. Ci sono immagini rarefatte, dove solo la tensione della pelle e la geometria dello scatto bastano a creare bellezza. Ma dentro Premamai c’è soprattutto quello che non si dice, che è ancora bollato tabù, che si nasconde. Tra le meraviglie della maternità da storytelling, c’è un sottomondo intriso di momenti di sconforto, rabbia, solitudine e dolore, che la società coi suoi limiti e imposizioni causa alle donne. Momenti quasi violenti, neri, che travalicano il tempo e le generazioni, e sono sempre lì uguali a loro stessi. L’oppressione politica, le aspettative sociali, la tradizione rigida che ostacolano la libertà di scegliere per la donna un’altra vita, un altro percorso.
Sottesa a questa tensione attorno al tema della maternità c’è sempre, costante, anche la necessità di una reazione. Che nell’opera viene portata alla quintessenza con un video dalle immagini rapide e catartiche, a tratti lisergiche. Quantomeno, plastica rappresentazione di una presa di coscienza, il diritto di poter urlare dopo aver a lungo covato quella rabbia che può nascere solo dentro l’utero di una donna. Premamai, l’istinto atavico che ci porta a diffondere il nostro DNA, scelta cosciente, scelta imposta, pressione sociale? Le sfumature sono a volte lievi, a volte drammatiche, che smuovono intere generazioni.
Di certo questo progetto non intende in alcun modo opporsi o osteggiare la meraviglia della maternità e di tutte quelle splendide donne che la vivono in modo libero. Vuole invece costituire un grido di dolore e di rabbia che si erge ogni qual volta una donna viene obbligata a divenire “fabrica” sociale prima di essere considerata un essere umano.